Come annunciato in un post di qualche giorno fa, il Gruppo di interesse della SIDI sul diritto internazionale privato e processuale intende promuovere un confronto fra i suoi membri e, in generale, fra gli studiosi della disciplina e i pratici, in merito allo schema di decreto legislativo recante norme di diritto internazionale privato in materia di unioni civili.
Giacomo Biagioni, dell’Università di Cagliari (biagioni@unica.it), ha deciso di rompere il ghiaccio proponendo il testo che riproduciamo qui sotto. Chi desiderasse far conoscere il proprio punto di vista è invitato a lasciare un commento, utilizzando l’apposito campo che compare in calce al post. In alternativa, specie se si tratta di commenti di una certa ampiezza, gli interessati possono far avere i loro scritti a Fabrizio Marongiu Buonaiuti, che coordina questo forum (f1.marongiubuonaiuti@unimc.it).
Com’è noto, la legge n. 76/2016, nel dettare la disciplina delle unioni civili tra persone dello stesso sesso, non ha inteso disciplinare direttamente i profili internazionalprivatistici connessi a tale nuovo istituto, ma ha delegato il Governo ad adottare un decreto legislativo finalizzato alla modifica e al riordino delle norme in materia di diritto internazionale privato, prevedendo quale unico criterio direttivo specifico “l’applicazione della disciplina dell’unione civile tra persone dello stesso sesso regolata dalle leggi italiane alle coppie formate tra persone dello stesso sesso che abbiano contratto all’estero matrimonio, unione civile o altro istituto analogo”. A tal fine il Governo ha dunque recentemente approvato uno schema di decreto legislativo, il quale mira a introdurre nella legge n. 218/1995 quattro nuove disposizioni (articoli da 32-bis a 32-quinquies), specificamente dedicate alle unioni tra persone dello stesso sesso, e a sostituire l’articolo 45 della stessa legge, relativo alle obbligazioni alimentari nella famiglia.
La collocazione delle nuove disposizioni all’interno della legge n. 218/1995
Le disposizioni sull’unione civile tra persone dello stesso sesso verrebbero inserite nel capo IV della legge n. 218/1995 dedicato ai “rapporti di famiglia”. Una simile scelta costituisce già un elemento significativo, ove si consideri che nel testo della legge n. 76/2016 la parola “famiglia” non compare mai. Ciò evidentemente in ossequio alla posizione della Corte costituzionale secondo cui il concetto di “famiglia” fatto proprio dall’art. 29 della Costituzione si correla a quello di matrimonio e “la nozione di matrimonio presupposta dal Costituente (cui conferisce tutela il citato art. 29 Cost.) è quella stessa definita dal codice civile del 1942, che stabiliva (e tuttora stabilisce) che i coniugi dovessero essere persone di sesso diverso…” (sentenza n. 170/2014, punto 5.2 del Considerato in diritto).
Ma l’inquadramento delle unioni civili nel capo della legge n. 218/1995 relativo ai rapporti di famiglia non sembra dettata dall’intenzione di qualificare l’unione civile come un “rapporto di famiglia”: ciò appare dimostrato dalla circostanza che il (nuovo) art. 45 sulle obbligazioni alimentari nella famiglia viene ritenuto non applicabile proprio vigore alle unioni civili, ma in forza dell’espresso richiamo dell’art. 32-ter, 5° comma. Piuttosto, la scelta di collocare le disposizioni nel capo IV della legge sembra il frutto di una generale similarità della disciplina dell’unione civile rispetto alla figura del matrimonio. Tale assimilazione – già evidente nella legge n. 76/2016, in cui la disciplina dell’unione civile è costruita attraverso richiami selettivi alla disciplina del matrimonio – viene ribadita dallo schema di decreto, che struttura la disciplina di conflitto dell’unione civile seguendo l’ordine delle disposizioni della legge n. 218/1995 relative al matrimonio (condizioni per contrarre l’unione civile, validità formale, rapporti personali, rapporti patrimoniali, scioglimento dell’unione civile) e, come si vedrà, talora riproducendone, mutatis mutandis, alcune soluzioni.
Peraltro, tale assimilazione viene condotta anche oltre dallo schema di decreto, che, in materia di designazione della legge applicabile allo scioglimento dell’unione civile, richiama la disciplina del regolamento UE n. 1259/2010 (c.d. Roma III) relativo ad una cooperazione rafforzata nel settore della legge applicabile al divorzio e alla separazione personale, e dunque applicabile ex se soltanto in materia matrimoniale (com’è noto, è invece dubbio se rientrino nel campo di applicazione del regolamento i matrimoni same-sex, eventualmente con la ‘salvaguardia’ prevista dall’art. 13 del regolamento stesso per gli Stati che non riconoscano tali matrimoni come validi).
Il riconoscimento dei matrimoni same-sex conclusi all’estero come unioni civili
Le nuove disposizioni destinate ad esere inserite nella legge n. 218/1995 si aprono con l’art. 32-bis, relativo ai matrimoni same-sex conclusi all’estero, i quali, ai sensi della disposizione, producono “gli effetti dell’unione civile regolata dalla legge italiana”. La scelta di collocare tale disposizione in apertura lascia intendere che essa mira a definire il campo di applicazione della disciplina internazionalprivatistica sulle unioni civili, ricomprendendovi anche la fattispecie dell’unione contratta all’estero in forma matrimoniale, che viene riqualificata, secondo la tecnica della downgrade recognition, come unione civile.
L’uso di tale tecnica – già evincibile dal testo della legge n. 76/2016 – ha suscitato perplessità in dottrina, in particolare con riferimento alla possibile antinomia rispetto al principio della libera circolazione delle persone stabilito dal diritto dell’Unione europea e al connesso obbligo di mutuo riconoscimento degli status personali e familiari (v. ad esempio qui). La circostanza che la stessa sia già usata anche in ordinamenti di altri Stati membri UE (ad es. Austria e Germania: v. l’Annex 3 allo Study on the assessment of Regulation (EC) No 2201/2003) senza che siano state sin qui sollevate specifiche difficoltà sul punto potrebbe scongiurare tale rischio. Piuttosto, appare rilevante la considerazione che per questa via viene introdotta una qualificazione meno favorevole del matrimonio same-sex concluso all’estero che non appariva imposta dal quadro normativo preesistente (in cui, infatti, i giudici italiani avevano ritenuto trascrivibile come matrimonio l’unione contratta all’estero in forme matrimoniali tra cittadini di uno Stato che ammettesse tale forma di unione same-sex: v. il provvedimento 5 aprile 2016 della Corte di Appello di Napoli).
Tuttavia, l’art. 32-bis pare andare oltre l’intenzione di stabilire una (ri)qualificazione legeforistica di tali matrimoni, in quanto non si limita a prevedere che ad essi si estenda la disciplina internazionalprivatistica delle unioni civili, ma li sottopone ipso facto alla legge italiana. Va anzitutto detto che una simile scelta non appare una conseguenza necessaria del criterio direttivo previsto dall’art. 1, 28° comma, della legge n. 76/2016: ciò è tanto vero che per le unioni civili concluse all’estero – nella forma di unioni civili – l’art. 32-ter, 4° comma, presente nello stesso schema di decreto ammette l’applicazione anche di una legge diversa da quella italiana. Poiché il criterio direttivo si riferisce in termini identici a entrambe le tipologie di unioni same-sex, sarebbe stato certamente possibile prevedere che anche il matrimonio same-sex concluso all’estero fosse semplicemente soggetto alla disciplina di conflitto relativa alle unioni civili (con conseguente possibile applicazione di una legge straniera).
La relazione illustrativa allo schema di decreto si riferisce alla soluzione adottata come “obbligata” per il matrimonio concluso all’estero, ma non per l’unione civile; peraltro, le ragioni di tale distinzione non sono esplicitate. Sul punto, la relazione si limita a rilevare che rispetto a un’unione civile conclusa all’estero l’applicazione della legge italiana si impone solo quando in una situazione “totalmente italiana” le parti introducano un elemento di transnazionalità scegliendo di contrarre l’unione all’estero; mentre per le situazioni genuinamente transnazionali l’applicazione della legge straniera risulta ammissibile. Al contrario, il tenore dell’art. 32-bis determinerebbe la generalizzata applicazione della legge italiana a qualunque matrimonio same-sex concluso all’estero, a prescindere dall’esistenza anche di un minimo collegamento tra le parti e il nostro ordinamento.
La soluzione così prospettata non appare convincente per tre ordini di ragioni.
1) Essa sembra determinare una sovrapposizione tra l’aspetto della qualificazione del matrimonio same-sex, la norma di conflitto e il diritto materiale applicabile, poiché, per un verso, si procede alla (ri)qualificazione dello stesso come unione civile ma, per altro verso, si fa discendere la necessaria applicazione delle norme materiali italiane dal modo in cui l’istituto è qualificato nell’ordinamento di origine, anziché sottoporlo alla disciplina internazionalprivatistica delle unioni civili. Continua a leggere →