Facendo seguito ai precedenti commenti in questo forum, dovuti a Giacomo Biagioni, Cristina Campiglio e Francesco Pesce, pubblichiamo ora queste osservazioni di Silvia Marino, dell’Università dell’Insubria (silvia.marino@uninsubria.it). Frattanto, segnaliamo che il Consiglio dei Ministri, nella seduta del 14 gennaio 2017, ha approvato il testo del decreto legislativo recante la disciplina internazionalprivatistica italiana in materia di unioni civili. Il testo del decreto legislativo 19 gennaio 2017, n. 7 è stato ora pubblicato in G.U. n. 22 del 27 gennaio 2017. E’ scaricabile a questo link..
Ulteriori spunti sul matrimonio same-sex e sul coordinamento con il regolamento n. 2016/1104 — Silvia Marino
Vorrei porre in primo luogo qualche osservazione ulteriore sugli istituti stranieri sconosciuti in Italia, ovvero il matrimonio fra persone dello stesso sesso e l’unione civile fra persone di sesso diverso.
Condivido l’opinione già espressa per cui il downgrade del matrimonio same-sex alla partnership registrata di diritto italiano risulta l’unica soluzione possibile alla luce della delega legislativa. Sebbene, come rilevato, possa risultare non conforme alle aspettative dei coniugi, che hanno contratto matrimonio all’estero, non pare, tuttavia, contraria all’attuale orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo. Mi pare particolarmente significativo il caso 16 luglio 2014, Hämäläinen vs. Finland, ricorso n. 37359/09, per quanto relativo a una situazione puramente interna. Infatti, è chiara la posizione della Corte nel senso dell’inesistenza di un obbligo per gli Stati membri di ammettere nel proprio ordinamento il matrimonio fra persone dello stesso sesso, e, in mancanza, di trattare questa relazione come un’unione registrata. Non mi pare che la transnazionalità della fattispecie possa effettivamente modificare questa conclusione. Il downgrade costituirebbe pertanto un equo bilanciamento degli interessi delle parti a vedere riconosciuta la formalizzazione del proprio rapporto, con interessi di carattere pubblico, collegati verosimilmente a una tradizione culturale ed etica, di riservare l’istituto del matrimonio alle coppie di sesso diverso.
Non meno delicato risulta il tema del riconoscimento delle unioni civili contratte all’estero fra persone di sesso diverso. Si tratta, anche in questo caso, di un istituto sconosciuto al nostro ordinamento. L’assenza di qualsiasi disciplina rischia di creare serie difficoltà interpretative ed applicative. Infatti, non sarebbe possibile una soluzione speculare alla precedente, ovvero l’upgrade al matrimonio. Infatti, l’unico common core nel diritto di famiglia in una prospettiva comparatistica è costituito proprio dal matrimonio eterosessuale e monogamico. Pertanto, se i partner avessero voluto sposarsi, avrebbero avuto l’accesso a questo istituto anche nello Stato di origine. L’unico caso in cui questa condizione non si verifica è data dall’esistenza di impedimenti matrimoniali nello Stato d’origine più stringenti rispetto a quelli previsti nel nostro ordinamento e che sono applicabili anche per la conclusione delle unioni civili. Solo in questa ipotesi sarebbe allora possibile immaginare che il riconoscimento della partnership registrata straniera possa avvenire per il tramite dell’istituto matrimoniale, purché siano stati applicati nello Stato d’origine impedimenti che potremmo considerare contrari all’ordine pubblico italiano. Negli altri casi, l’upgrade pregiudicherebbe le legittime aspettative delle parti, che hanno scelto di non contrarre matrimonio, ma di concludere un’unione registrata.
Evidentemente, il mancato riconoscimento della partnership fra persone di sesso diverso comprometterebbe il loro diritto alla vita familiare.
L’unica possibilità è data dall’equiparazione della partnership straniera all’unione civile di diritto italiano. Questa soluzione dovrebbe essere espressa, ma può essere altresì ricavata in via interpretativa su due fondamenti. Il primo è costituito dal rispetto della vita familiare, in forza del quale dovrebbe essere attributo effetto a status acquisiti all’estero, salve interferenze statali basate su legittime e proporzionate esigenze. In questo caso, non sembra che possa essere individuata alcuna ragionevole giustificazione all’ingerenza statale. Il secondo è determinato dal fatto che è già ammessa la conversione di una partnership straniera in un’unione registrata di diritto italiano, qualora la prima sia conclusa da due cittadini italiani. La disposizione si pone certo intenti antielusivi, che invece non si presentano nella discussione del problema del riconoscimento delle partnership fra persone di sesso diverso, indipendentemente dalla loro nazionalità. Quel che rileva, invece, è proprio determinato dalla possibilità di modificare la natura e gli effetti dello status acquisito all’estero in un istituto di diritto italiano.
Infine, mi sembra interessante riflettere sul coordinamento del diritto internazionale privato italiano con il regolamento UE n. 2016/1104, sulla cooperazione giudiziaria civile nell’ambito degli effetti patrimoniali delle unioni registrate. Quest’ultimo sarà applicabile a partire da gennaio 2019, superando quindi parzialmente l’art. 32-ter, c. 4, contenuto nello schema di decreto legislativo recante la nuova disciplina di diritto internazionale privato in materia di unioni civili, con riferimento, appunto, ai rapporti patrimoniali. In particolare, sorge il problema interpretativo dell’unico criterio di collegamento posto dal regolamento (art. 26, par. 1), determinato dalla legge sul cui fondamento l’unione civile è stata costituita. Il riferimento al diritto nazionale è implicito, ma evidente, dal momento che il diritto dell’Unione europea non pone norme sulle condizioni di costituzione dell’unione, nemmeno nell’ambito del diritto internazionale privato. Si deve comprendere quindi quale sia la legge in forza della quale l’unione viene costituita. Mi pare infatti che non sia a priori impedita la conclusione di una partnership di diritto straniero da parte dell’ufficiale di Stato civile italiano, nonostante una scarsa apertura a valori provenienti dall’esterno del nostro ordinamento, riscontrabile nella l. 76/16 (e che le norme di diritto internazionale privato cercano di superare, nei limiti della delega). Invero, l’ipotesi non sarebbe frequentissima, ma non mi pare si possa davvero escludere almeno in termini astratti. Lo stesso criterio di collegamento di cui all’art. 26, par. 1 del regolamento n. 2016/1104 induce a porre una distinzione fra luogo di registrazione (suggerito nella originaria proposta di regolamento della Commissione del 2011) e legge sul fondamento della quale la registrazione è stata effettuata. Nell’ambito del decreto, si potrebbe immaginare un riferimento alle norme sulla validità formale, oppure sulla capacità e sulle altre condizioni per costituire un’unione civile. Nel primo caso, la legge italiana richiamerebbe alternativamente quattro possibili leggi, alla luce del favor validitatis (art. 32-ter, c. 3); nel secondo, sarebbe richiamata la legge nazionale di ciascuno dei partner. In ciascuna ipotesi, non è univocamente determinabile una sola legge in forza della quale l’unione viene costituita. Allo stesso tempo, le norme sugli impedimenti sono espressamente dichiarate di applicazione necessaria. Manca quindi un criterio unico che determini sul fondamento di quale legge l’unione possa essere costituita.
L’indicazione nel documento pubblico di certificazione della costituzione della partnership della legge applicata all’unione civile risolve solo in parte il problema. Tale menzione espressa rischia di non avere alcuna rilevanza in altri Stati membri, trattandosi di dare efficacia al contenuto di un documento pubblico, mentre, come noto, il regolamento n. 2016/1191 disciplina solamente l’accettazione di autenticità dello stesso.